Caricamento in corso

Quando la letteratura diventa alchimia tra profezia e disubbidienza nella ricerca di Pierfranco Bruni

Quando la letteratura diventa alchimia tra profezia e disubbidienza nella ricerca di Pierfranco Bruni

Antonio Casu
Sin dal titolo, il libro di Pierfranco Bruni mette la letteratura in relazione a tre concetti: Alchimia, Profezia, Disubbidienza. “L’alchimia della letteratura. Tra profezia e disubbidienza”, casa editrice Nemapress. La sua opera si manifesta come il tentativo di declinare le relazioni che si sviluppano tra questi concetti, e tra essi ed altri tre, che marcano la sua riflessione: il Tempo (che “non si allontana, diventa indissolubile”, p. 5), il Viaggio (“percorso viaggiante dentro di noi”, ibidem), la Parola.
Per l’Autore, l’alchimia dell’invito al viaggio è anche “alchimia del dolore” (p. 12), è il filo a cui è sospesa l’inquietudine umana (ibidem), il miraggio della catarsi dal male di vivere, nel quale – a partire da Baudelaire, da Spleen a Les fleurs du mal – “il Romanticismo inquieto confluisce in un Decadentismo disperante e irrequieto” (p. 16), e in cui convergono la sensualità del romanticismo e la psicologia analitica del linguaggio profetico. In questa prospettiva, Bruni lega il concetto di alchimia ad una dimensione onirica, lo risolve cioè nel viaggio interiore mediante il quale, anticipando Pirandello, la letteratura del tragico tenta – peraltro invano, a mio avviso – di superare il dolore di un’epoca.
Ma Bruni lega il concetto di alchimia, che talvolta utilizza in simbiosi con quello di magia, anche alla poesia. Poesia che “non è laboratorio (…) né improvvisazione, ma immediatezza” (pp. 18-19). Ed anche, in Apollinaire, luogo di contaminazione della cultura classica con quella che l’Autore definisce “cultura sciamanica”, in cui il messaggio è traslato da figure allegoriche: la tartaruga, il cavallo, il serpente. Ed ancora viaggio, esplorazione della coscienza, dall’inquietudine del disordine del vissuto alla percezione di un agognato ordine superiore, dal dramma dell’esistere ad una condizione ambita nella quale la ricerca di religiosità e l’espressione “alchemica” si sublimino in Armonia.
L’alchimia della letteratura rievoca, nella sua interpretazione, “il senso del mistico e del mistero” (p. 25), in cui la letteratura occidentale e quella orientale si scambiano fermenti fecondi, come evidenzia nel suo raffronto tra Pirandello e Puškin, tra i quali rinviene “un dettato importante, che è quello della cultura orientale e sciamanica” (p. 25). La chiave di tale condivisione è il talismano, non a caso titolo di una poesia di Puškin nella quale esso “ha sempre acquisito una valenza metafisica e simbolica della rappresentatività degli archetipi” (p. 26). Il talismano, elevato al rango di “pietra alchemica”, è nei due autori il segno di una volontà di ricongiunzione tra l’antropologia occidentale e quella orientale.
Il secondo dei concetti evocati da Bruni è il Tempo, “che si fa memoria e lancia la sua sfida con gli occhi della malinconia” (p. 29). Bruni vi si sofferma quando commenta Sgorlon, e i suoi echi del “tempo che recita la meraviglia, il dolore, il tragico, la fisicità, l’onirico, il misterioso, l’incanto-magia” (p. 30), e soprattutto ai suoi studi su Kafka, al quale dedicò anche la sua tesi di laurea. In Sgorlon anche l’ironia, annota Bruni, conduce all’archetipo e, suo tramite, al sacro.
“Non si tratta – avverte Bruni – di un tempo storico, ma di un tempo mitico” (p. 31). E in questa accezione del tempo affonda le sue radici la Profezia, anche quando vissuta con lucido pessimismo, come in Leopardi, nella cui poetica “l’indefinibile nostalgia che lega spiritualmente il labirinto con il caos” (p. 33) diviene icona di un Risorgimento incompiuto. Il mito dell’infinito si rivela la proiezione di un Tempo “che non ha coincidenze e neppure concordanze, ma solo rimembranze” (p. 34). Anzi, “la rottura con la storia impone un recupero del sottosuolo della memoria” (p. 35). “In Leopardi – scrive – l’alchimia diventa la metafisica della morte” (ibidem).
Il pessimismo di Leopardi si contrappone al rifugio nella letteratura come mito e magia, come in Carlos Castaneda, il quale nella sua narrazione fonde sogno e memoria. Per Castaneda “il sapere è una farfalla notturna” (p. 43) che ti visita in sogno. Nella sua visione il sapere e il potere, che sono distinti, si ricongiungono in modo ignoto, forse all’incontro con la farfalla, allorché i sapienti, gli unici a detenere l’uno e l’altro, vestono i panni dei guerrieri. In Castaneda, “la conoscenza è destino” (ibidem). Ed è riflettendo su Castaneda che Bruni trova la sua personale via alla spiritualità, “la spiritualità del sogno”, oltre la quale è il regno del relativo. “Ed io – annota – che al relativismo non mi sono mai affidato, così come alla ragione, trovo in lui l’aquila e il volo tra il sogno e la fede” (p. 44).
Nel tempo a-storico della parola e della letteratura, Bruni mette spesso a confronto gli autori sui quali si misura, sui quali medita e dai quali trae alimento. Così Pirandello e Puškin, ma anche Pavese e Alvaro, nella cui opera rivive i suoni della sua Calabria, sonorità e rimembranze “che sottolineano il sottosuolo di una nostalgia che è costantemente nostos” (p. 55), viaggio come ritorno. Ritorno alla cultura delle origini, alla grecità che è punto di convergenza tra cultura dell’Occidente e dell’Oriente, con quel senso di comune appartenenza in cui il passato sopravvive e si radica nella memoria.
Non posso fare a meno di notare che il reiterato ricorso al termine “sottosuolo” richiama il tema della coscienza, e rievoca Memorie del sottosuolo, opera composta da Dostoevskij nel 1864, nella quale il protagonista prende le distanze dall’Ottocento, e dal positivismo, rivendicando  all’uomo autonomia di giudizio e libertà di pensiero,  e trova una possibilità di catarsi proprio nella scrittura, nella parola, tramite la quale riesce a liberarsi dal peso opprimente della memoria, che una volta oggettivata, perché scritta, può essere osservata con maggiore lucidità. Una lucidità che finisce per venarsi di malinconia. Alla quale Bruni non si sottrae: “Io ormai scrivo soltanto per dimenticare” (p. 95).
Nella seconda parte del suo libro, Bruni concepisce la profezia come disubbidienza, intesa come adesione alla filosofia del dubbio contro ogni schematismo, e in fondo come personale ricerca dell’assoluto.
Con l’amara consapevolezza che di fronte all’assoluto manifesta  Camus, secondo il quale, di fronte alla sofferenza, all’uomo non rimane che “proporsi di diminuire aritmeticamente il dolore del mondo” (p. 61).
Con l’invito alla contemplazione e al silenzio che rinviene nella poesia “metafisica” di Sgalambro.
Con l’utopia libertaria di Silone, che vive la conversione, politica e religiosa, come anelito alla libertà, e che in un viaggio in Palestina, con la moglie, rivede la sua terra d’Abruzzo. La patria come Terra promessa e l’Abruzzo come nuova Palestina: il viaggio interiore e quello fisico si fondono, ed è ancora nostos, ancora un ritorno.
A questo proposito, vorrei consentirmi una digressione. Nel racconto del suo viaggio, di cui Bruni riporta un passo significativo, Silone riporta un particolare apparentemente incidentale, e al quale peraltro non dà seguito, che ci rivela, a mio avviso, la profondità della sua conversione come memoria e profezia. “Quel giorno – scrive – non c’era neanche un passante per strada: solo sotto Betlemme, incontrammo una donna vestita di nero, con un bambino in braccio, sopra un asinello polveroso che ci passò accanto senza guardarci (…)” ed egli fu colto “da uno stato d’animo assai strano”, che attribuisce alla “impressione del già visto e vissuto” (p. 66-67). Eppure, mi viene da pensare che l’immagine di quella madre con il bambino sull’asinello polveroso, che va per la sua strada, nei pressi di Betlemme, è forse già, seppure quasi inavvertita, una potente rappresentazione del suo ritorno alla fede delle origini.
Ma torniamo a Bruni, e alla sua personale ricerca dell’assoluto, che si manifesta anche nella sua riflessione sulla vicenda intellettuale e la tragica fine di Giulio Cesare Vanini, filosofo secentesco che dal cristianesimo approda al panteismo e al naturalismo, e viene condannato a morte dall’Inquisizione francese. Bruni erige Vanini, che riscosse le simpatie di molti nei secoli successivi, da Schopenhauer a Hölderlin, a simbolo della volontà di prevaricazione del potere costituito che lo punisce in modo emblematico: “la parola messa a tacere con il taglio della lingua, il pensiero con lo strozzamento e la presenza con il rogo” (p. 77).
Oggi, mi viene da pensare, questa feroce repressione della libertà di pensiero, in molte parti del mondo, nelle forme più diverse, è ancora attuale. E tuttavia neanche noi, qui ed ora, possiamo dirci al riparo: non già dal ritorno di tribunali religiosi, ma dalle forme più raffinate e pressoché invisibili di emarginazione e ghettizzazione, di tacita condanna all’irrilevanza e alla sterilità, di ogni pensiero non conforme al mainstream dominante, in definitiva dai nuovi tribunali del potere. Al cui operato si può estendere l’amara considerazione che Bruni riferisce al processo di Vanini. “Non una leggenda – commenta -, ma una nera verità” (ibidem).
Il libro di Bruni, oltre alla testimonianza di un lungo percorso di serrato confronto con gli autori, è anche un complesso saggio di critica letteraria, prevalentemente italiana ma anche straniera. In questo viaggio, ancora un nostos, Bruni medita in dialogo con molti.
Con “l’eresia” di Foscolo, del suo “inquieto decadentismo (…) che rompe gli schemi sia dell’Illuminismo che del Romanticismo e si intaglia nella modernità” (p. 80).
Con il realismo di Machiavelli, riletto alla luce del pensiero politico del Novecento, di cui è per molti versi antesignano.
Con Sciascia, “che processa il quotidiano e va dentro la storia”, anteponendo “l’intelligenza critica” al “conformismo dilagante” (pp. 105-106).
Ed anche, come nel caso di Vanini, con vari filosofi, oltre che con gli scrittori. Per Bruni questo dialogo si rivela  necessario, perché se “la teologia è ubbidienza”, la “filosofia è dissolvenza ma anche disubbidienza” (p. 147). Ad esempio quando, ragionando in contraddittorio con André Glucksmann, sottolinea criticamente il rifiuto dell’Europa delle sue stesse radici identitarie, cristiane. “Una Europa senza cristianità – scrive Bruni – è una terra desolata, ed essendo tale, è abbandonata al nulla” (p. 143).
Il tema della religiosità è centrale nel libro di Bruni. La stessa condanna dell’oscurantismo religioso e la distanza dalla dommatica rivelano un’ansia della religiosità delle origini, una ricerca di fede.
Non solo coniugando “la ricerca di Dio” e “la memoria di Cristo” che vivono nella letteratura (p. 87), come nella riflessione di don Giussani, secondo il quale “la forma quotidiana della decisione per l’esistenza è vivere la memoria di Cristo” (ibidem), nel solco di un ragionamento che ad avviso di Bruni conduce a Pavese, attraversato, e consumato, dall’inquietudine dell’esistenza e che cerca invano di rinvenire “un barlume di luce”.
Ma anche nell’eclettismo mistico di Nazim Kalim Dakota Abshu, erede di Kahlil Gibran, che coniuga il misticismo sufi con la fede cristiana, e rimane affascinato dalla figura di Cristo, al quale dedica versi, come Tagore.
“Nel venir meno l’appiglio al religioso – nota Bruni – il vuoto si dichiara” (p. 88). Bruni contrappone il destino di Paolo di Tarso, che ha colto il tempo dell’attesa, a quello di Seneca, il quale “nel morire ha perso Cristo” (p. 167), incarnando così, con le parole di Maria Zambrano, “un tragico fallimento, il fallimento dell’intellettuale dinanzi al potere” (ibidem).
Ma per trovare il vero protagonista del libro di Bruni occorre tornare al Tempo. Lo qualifica in molti modi. Il tempo “distruttivo” della Zambrano, il tempo “improcrastinabile” di Paolo, il tempo “indefinibile” che corre da Paolo ad Agostino e che, “uscendo dal mito ed entrando nella metafisica oltre qualsiasi ragione, diventa sacro” (p. 179). Ma il tempo di cui tratta Bruni, su cui spesso si sofferma, non può essere limitato ad alcuno di questi significati.
L’alchimia della letteratura, suggerisce Bruni, è quella di riuscire, attraverso un viaggio interiore che è nostos, ritorno alle radici vitali, ad interpretare il tempo. Ma non si tratta del tempo sequenziale. Non si tratta di Kronos, ma di Kairos, del tempo cruciale, che rivela il mistero e impone una scelta. Il tempo designato sin dall’inizio per la realizzazione del disegno di Dio, il tempo per questo così difficile da interpretare. Il tempo della storia, collettiva (come i kairoi nella “Guerra del Peloponneso” di Tucidide) ma anche individuale, che è ad un tempo segno di crisi e di opportunità. Che occorre cogliere senza possibili rinvii. Come recita l’epigramma di Posidippo posto sulla statua del Kairos di Lisippo:
E tu chi sei? – Il Momento, signore di ogni cosa.
Perché stai in punta di piedi? Corro sempre veloce.
Perché hai due ali ai piedi? – Io volo col vento.
Print Friendly, PDF & Email