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Il 6 aprile del 1520 a 37 anni moriva Raffaello Sanzio Raffaello. tragico e metafisico a 500 anni dalla morte

Il 6 aprile del 1520 a 37 anni moriva Raffaello Sanzio Raffaello. tragico e metafisico a 500 anni dalla morte

Pierfranco Bruni

 Analizzare Raffaello Sanzio, da un punto di vista artistico, filosofico, teologico e antropologico, può risultare complesso. In alcuni suoi lavori l’attenzione si concentra maggiormente sulle forme, e quindi sulle figure e sui personaggi presenti sulla scena, mentre in altri è la rappresentazione delle tematiche a suscitare grande interesse e motivo di discussione.
Mi riferisco, in particolare, a quelle opere in cui si avverte forte un codice cristiano religioso inteso come lettura teologica. Uno scavo nell’ambito dei processi esistenziali che originano nel mondo cristiano e che fanno emergere problematiche nel legame tra occidentalità cristiana e rappresentatività delle figure.
Figure che provengono dal mondo ebraico, dalla cultura cattolica vera e propria, come l’immagine di Cristo, raffigurato con un’espressione innocente e sofferente, o come la figura di Pietro e quella di Maddalena. Una donna che viene rappresentata nella sua bellezza e nell’infinita devozione a Cristo. Vi è, inoltre, la presenza di innumerevoli filosofi che incidono parecchio all’interno della tematica di Raffaello. Troviamo le cosiddette “Madonne”, immesse in una carnalità profonda, che si configurano nell’immagine della madonna-donna o in quella della donna che diventa Madonna.
Tra questi lavori a tematica religiosa, considero estremamente significativo il dipinto dedicato a san Paolo dal titolo Predica di san Paolo agli ateniesi (conservato nel Victoria and Albert Museum di Londra) che nasce come un gessetto nero a tempera su fogli di carta montati successivamente su teli. Uno spaccato che offre la possibilità di cogliere la funzione e la figura di Paolo come dato centrale anche all’interno di un rapporto in cui la conversione già avvenuta si dichiara in un dialogare in questo spazio-agorà in cui il tempo diviene infinto.
La figura di Paolo la ritroviamo in diversi lavori di Raffaello, ma in questo dipinto viene posto in evidenza il momento solenne della predicazione. Maestoso nel suo chitone rosso, con le mani rivolte verso l’alto e con la barba lunga, san Paolo assume le sembianze di un filosofo. Del resto Paolo era anche filosofo, all’interno di quella vasta teologia del mistero che avvolge la proiezione di una profezia.
Raffaello, che è parte integrante del mondo cristiano cattolico occidentale (anche se si intravedono radici che rimandano al mondo greco latino), tende ad attribuire a san Paolo un ruolo centrale, individuando in lui la sintesi di un viaggio pre e post cristiano. Ciò dimostra la cristianità profonda di un artista che ha attraversato e superato diverse esperienze, inserendosi nel contesto che è quello della trasfigurazione.

D’altronde la figura della Madonna, insieme alle immagini dei bambini angeli che dialogano o che si specchiano nello sguardo della madre-Madonna, rappresentano un inciso ancora più evidente di quella metafisica dell’anima. Ma la metafisica vera e propria si raggiunge in questo lavoro, perché san Paolo, predicando con le braccia alzate, nel senso di elevazione verso l’alto, testimonia una illuminazione vera e propria in questo contesto ateniese che appartiene alla cultura greca. Con l’atto solenne della predicazione di Pietro, Raffaello veicola il messaggio cristologico arricchito del valore della conversione, della resurrezione e della speranza in una profezia che diviene proiezione del divino. La divinità viene espressa da questo Dio assoluto che Raffaello vede, rivede e mostra proprio attraverso la figura di san Paolo.

Raffaello è un tragico. Il suo classicismo nasce nel mito. Il mito è una rivelazione della immortalità. Anche la santità dei Santi raffaelliti vivono il tragico e l’indefinibile incomprensione dello sguardo. Il Cristo caduto, ferito, trafitto, trasfigurato, rivelato è tragico. Cristo non è nel mito. È il sacro. Non teologico. Ma mistico e perseguitato. Il pellegrino solo.

Le Madonne sono l’erosione della pietà. Pietro è una liberazione senza profezia. Paolo è il predicatore che cerca di essere accolto. La figura che maggiormente colpisce come eredità e profezia resta Enea. Non il pio Enea. Ma il personaggio che scappa con Anchise e Ascanio dall’incendio. L’Enea senza popolo con l’idea di cercare la salvezza dai Greci. I greci restano mito immaginario. Invisibile come il pensiero.

Solo la Sistina è luce. Ma è una stanza chiusa dove la luce si inventa per necessità teologica, ovvero per ragione e illusione. Cristo è crocefissione stanca o volto irriconoscibile rispetto alla tradizione. Solo le donne carnali sembrano avere una verità nel reale. Sia la Fornarina ch la Velata. Il resto in Raffaello sembra essere una trasfigurazione. Nella sua ultima opera si recita la verità. Ma Cristo è solo nonostante gli apostoli incisi come trappola suggestionati dalla apparizione. Gli angeli sono virtù nella incredulità degli occhi di chi considera il Rinascimento una rivoluzione.

La Maddalena è una disperata e ai piedi della Croce venerano. Sono una venerazione dipinta. Raffaello è un genio della finzione tragica. Anche i suoi autoritratti sembrano l’innocenza fattasi carne, ma si portano sul volto una inconsapevole malinconia. Va oltre Michelangelo e Leonardo proprio nella finzione che recita il tragico. Cristo senza teologia è la tragedia dell’uomo. Il pellegrino stanco che abbandona la punizione dantesca per oltrepassare Giotto e porre al centro non solo la Grazia ma il labirinto. La Trafigurazione è il labirinto della metafisica che dialoga con l’assurdo. Trionfa sempre la Scuola di Atene perché è il Pensiero che si impossessa della fede. Ovvero è la filosofia che attraversa la fede. Ma la filosofia pone sempre un un’interrogativo che è comandato dal dubbio. Dove è la religione? È in ciò che ho definito come antropologia. L’uomo! Il Divino è esclusivamente escatologico.

Con Raffaello si spezza la pietà michelangiolesca e si va verso un intreccio decadente. La pietà è un notturno. Non un’alba. Raffaello ha la forza di farci capire che l’arte non è solo contemplazione. È estasi. L’estasi raffaellita è sensualità. Anche il velo è sensualità. I nudi di Raffaello  sono sensualità non purezza evangelica. L’arte è materia. Non solo spiritualità refrattaria. Mondi unici. La Madonna con il cardellino è santità nella sensualità. La Maddalena ha lo squarcio del tempo amoroso. La vita stessa di Raffaello non è passione cristologica. È sensualità lussuosa. La sua vita tutta materia ed eleganza si scontra con la ontologia della cristianità. I suoi santi, in fondo, hanno eleganza. Il mantello rosso di Paolo è estetica. La gestualità è stile. Gli occhi sono imprecazione suggestiva. Manca la preghiera. Comprende che il pianto non ha senso. Come non ha senso il peccato e quindi il perdono. La sua rivoluzione non è rinascimentale ma decadente e novecentesca. La sua grandezza è proprio qui. Sembra l’artista che dialoga con Nietzsche.

Nella Scuola di Atene anticipa la visione dell’anticristo. Ci proietta in ciò che Maria Zambrano ha definito il sapere dell’anima. È una confessione non della sua vita ma di ciò che la teologia avrebbe voluto essere. Lo fa con una tale convinzione da non convincere che sia vero Nell’apparenza c’è la verità cercata, ma la verità è una reale apparenza non voluta. Un disegno desiderato e giunto per volontà inaspettata. Infatti non è la sua confessione tranne in tre opere già citate: la Velata, il seno della Fornarina e la Scuola di Atene. Cerca un riscatto con l’ultimo lavoro: la Trasfigurazione. Diventa però il sapere del Pensiero. A 37 anni aveva detto tutto. La confessione che ha sempre la contraddizione dell’umano pur in una ricerca forzatamente spirituale. Il senso del metafisico, comunque, è chiaro orizzonte nella notte del limite.

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