di Antonio Vox
È celebre l’aforisma di Albert Einstein secondo cui, per cambiare il mondo, bisogna “mutare il pensiero”.
Einstein, però, aveva anche aggiunto che il maggiore ostacolo alla innovazione e allo sviluppo è rappresentato dai “luoghi comuni”.
Quindi, “luoghi comuni” come barriera, fortificazioni, mura di un castello tetragono.
Ma cosa sono questi “luoghi comuni” se non una derivazione del pensiero?
Non sono forse una applicazione pratica del pensiero stesso?
I “luoghi comuni” non sono altro che un complesso di premesse, mai messe in discussione, un coacervo di norme e procedure, una sovrastruttura, a sostegno, consolidamento e corredo delle premesse: ricordano, forse, qualcosa?
Assistiamo, quindi, alla messa in moto di un circolo vizioso: il pensiero genera “luoghi comuni” che, a loro volta, condizionano il pensiero stesso e ne impediscono il cambiamento.
È fuori dubbio che il castello e le sue sovrastrutture danno il senso della solidità che significa, in ultima analisi, stabilità ed equilibrio e, quindi, sicurezza e conforto.
Siamo sereni, nel ventre del castello, al riparo da burrasche ed aggressioni: nessuno può entrare.
Ma, a poco a poco, ci rendiamo conto che il castello e le sue sovrastrutture, non bastano più a sostenere le dinamiche del “sistema antropologico”, quello delle genti che contengono.
A poco a poco, il sistema entra in una involuta crisi esistenziale perché l’ossigeno comincia a mancare: comincia a mancare il senso della Libertà, nel pieno del suo significato.
La Storia insegna che il “sistema antropologico”, quello dell’insieme delle genti, è caratterizzato da dinamiche intrinseche che, inesorabilmente, divaricano dallo “statu quo ante” creando tensioni centrifughe, sempre più squilibrate che prima o poi, deflagrano.
Se, dunque, da un lato, registriamo una resistenza al cambiamento; dall’altro dobbiamo convenire sulla ineluttabilità del cambiamento: è uno stato che genera tensioni e conflitti.
E oggi? Che c’è, oggi, di speciale che produce tensioni centrifughe?
L’attuale “sistema antropologico” è caratterizzato dal fenomeno della mondializzazione che, per conferirle un’aurea di positività, nella accezione politically correct, è detta “globalizzazione”.
“Globalizzazione” è lo stesso che “beneficio”, si assumeva.
Fino a poco tempo fa, un liberale non avrebbe potuto dichiararsi contro la globalizzazione.
Oggi, però, dopo le ignorate avvisaglie di irreversibile crisi del sistema attuale, complice la pandemia del Covid 19, evidente acceleratore delle dinamiche sociali, cominciano ad emergere dubbi e a insinuarsi l’idea che il castello, così ben costruito, di “luoghi comuni” potrebbe non reggere più.
Si assiste alla progressiva depauperazione delle società, una volta ricche; all’ estinguersi della classe medio borghese, all’impoverimento del ceto, una volta, operaio; alla svalutazione del lavoro; ad un generale livellamento culturale; ad un dilagare delle disuguaglianze e delle ricchezze; ad una burocrazia non più di servizio ma di controllo.
Già, la burocrazia; il cui tasso di penetrazione e diffusione nel sociale possiamo usare come misura della degenerazione del “sistema antropologico” e spia della necessità di cambiamento.
La burocrazia si propaga come un virus: genera essa stessa burocrazia, infetta le menti, i comportamenti, i pensieri e non trova ostacoli nella sua diffusione. Persino la politica perde il suo ruolo e diventa burocrazia.
Si avvicina la consapevolezza che sia necessario cambiare il pensiero: ma ci vuole ancora un po’ perché i molti restii aprano gli occhi.
Certo, ora sappiamo che è difficile abbandonare il porto sicuro e confortevole del castello di strutture e sovrastrutture che abbiamo costruito pazientemente nel tempo, l’insieme di “luoghi comuni” fatto di premesse indiscutibili, norme e procedure, nel quale ci sentivamo confortati, e che ora appare sempre più una prigione per la Libertà.